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ESCLUSIVA – Anderlecht, Sarcì: ‘Il fenomeno Mertens nasce all’Università di Leuven, vi spiego come il calcio belga ha conquistato il mondo’

Alzi la mano chi avrebbe mai pensato che Dries Mertens potesse essere un centravanti. La alzi poi chi avrebbe addirittura pensato che Dries Mertens potesse essere quello che Ivan Juric, nella conferenza stampa della vigilia di Napoli-Genoa, aveva definito il centravanti attualmente più forte in Europa. Può sembrare una forzatura e magari lo è, ma i numeri confortano l’uscita del tecnico croato: 16 gol in campionato e una media sui 90 minuti che, Cavani a parte, mette tutti dietro a livello continentale. Higuain compreso. La rapidità con cui Dries ha saputo adattarsi alla sua nuova posizione in campo è forse in parte riconducibile a un certo tipo di intelligenza calcistica e reattività mentale applicata al gioco che ha fatto grande il calcio belga in questi anni, caratteristiche sviluppate nei giovani belgi da quando sono ancora molto piccoli, attraverso particolari metodi di allenamento passati alla storia come “Brain Training“. Lo stesso background, per esempio, che sta permettendo a Eden Hazard di trascinare il Chelsea di Antonio Conte e che ha reso quella dei Red Devils la nazionale più forte al mondo secondo il ranking FIFA.

Ma come nasce questo metodo e come si è lavorato e ancora si lavora, in Belgio, nel quotidiano? Lo abbiamo chiesto a Massimo Sarcì, grande esperto della materia che da 10 anni lavora in Belgio e che soprattutto da 5 anni è scout, metodologo e coordinatore tecnico del progetto giovani dell’Anderlecht in Italia, società che ha allevato anche Mertens tra gli 11 ai 16 anni di età.

Massimo, è’ un momento magico per Dries… 
“Incarna alla perfezione il tipico giocatore di questo momento storico del calcio belga.  Tutti i talenti belgi degli ultimi anni sono sulla stessa falsa riga delle caratteristiche di Dries: giocatori brevilinei, molto bravi nello spostare la palla, nel dribbling e negli inserimenti senza palla. Ma la parola d’ordine è: rapidità di esecuzione. Sono le caratteristiche su cui l’Anderlecht ha costruito le sue fortune in questi anni a partire dalle formazioni giovanili e Dries, con tutta la sua generazione, da questo punto di vista rappresenta la riuscita di uno specifico metodo di lavoro. Per lui è un momento straordinario, certo, ma se devo dirla tutta la sua la definirei un’esplosione tardiva, considerando quanto ben prometteva sin da giovanissimo. In Belgio si aspettavano che arrivasse stabilmente su questi livelli anche prima. A Napoli ora state godendo di un qualcosa di cui già si conoscevano le potenzialità”.

Come si diventa in Belgio un giocatore come Dries. Ovviamente ci vuole il talento… Poi?
“Il talento è la base, la prima qualità necessaria. Senza quello diventa difficile costruire qualsiasi altra cosa. Per quanto riguarda la metodologia adottata in questi anni dalla federazione belga e dai club con l’Anderlecht a fare da capofila, essa è incentrata più di ogni altra cosa sulla rapidità di esecuzione, attraverso lo sviluppo dell’applicazione mentale e dell’impegno cognitivo che portano alla lettura anticipata della giocata e della situazione di gioco. Basta osservare attentamente come gioca gente come Hazard, Praet e lo stesso Mertens, per capire cosa intendo: giocatori che vedono, sentono ed eseguono prima degli altri, proprio a partire da un particolare e più rapido stimolo di tipo mentale-cognitivo. Fateci caso, sono tutti giocatori che non hanno grande fisicità e che avrebbero fatto fatica ad emergere da giovani e diventare professionisti di questo livello con qualsiasi altro metodo tradizionale. Non c’è in tutti i paesi questa pazienza e soprattutto questo coraggio di puntare sulla formazione di giocatori che da giovani non mostrano spiccate doti fisiche e strutturali”.

Ci spieghi nello specifico che tipo di lavoro i giovani belgi sostengono nel quotidiano per sviluppare queste doti?
“Si lavora sempre sull’apertura di una visione periferica, attraverso uno sviluppo del gioco che non è mai unidirezionale ma sempre almeno bidirezionale, o su direzioni che cambiano in continuazione. Si lavora, come dicevo, sull’ampiezza della visione periferica, sia nelle esercitazioni che nelle partitelle, ad esempio attraverso i lavori a croce che sono tipici della metodologia belga. La cosa più importante, dal punto di vista dello sviluppo di gioco, è lo stimolo costante nei tre settori di campo 1-2-3, cioè nei tre settori che rappresentano l’inizio del gioco nella propria metà campo (1), lo sviluppo centrale (2), e la fase di finalizzazione (3). L’obiettivo è in ogni settore la costante ricerca della superiorità numerica, o attraverso il dribbling, o con l’inserimento senza palla. Anche il semplice lavoro tecnico è finalizzato a generare sempre stimoli cognitivi e di lettura delle situazioni, per far si che il giocatore abbia sempre la testa in modalità partita e non stacchi mai la spina”.

Spesso si è raccontato delle famose partitelle in stile gabbia, dove la palla non esce mai…
“Quelle servono per lavorare sui ritmi alti, che sono sempre molto importanti. Si tende a lavorare innanzitutto sul breve e poi dopo che i ragazzi abbiano dimostrato di avere un controllo totale sia della palla che degli spazi sul breve si comincia man mano a strutturare partitine più ad ampio raggio. Questo modo di lavorare fa parte di una concezione che forse è diventata sempre più comune negli ultimi anni, ma che quando fu adottata in Belgio diversi anni fa rappresentava una novità assoluta nel modo in cui veniva strutturata. Il fatto che non esca mai la palla non rappresenta di per sè un fattore metodologico, ma lo si fa nell’ottica di dare al giocatore l’indirizzo e la mentalità di provare a guadagnare lo spazio sempre in verticale, piuttosto che in orizzontale. Non essendoci un “fuori”, ma bensì un muro, il giocatore viene sempre “costretto” a dribblare o a guadagnare lo spazio attraverso un movimento senza palla in verticale, perchè a quel punto la verticalità diventa l’unico modo per conquistare terreno e avanzare sul campo dal momento che di spazio orizzontalmente non ce n’è”.

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Chi ha inventato questi metodi?
“Una buona parte di essi nascono all’università di Leuven (città natale di Mertens, ndr) che negli anni ha sperimentato e continua oggi a sperimentare il calcio del futuro. I precursori del metodo facevano parte di un gruppo di lavoro guidato tra gli altri da grandi professionisti come Michel Bruyninckx e Dirk Gyselinckx che sono i primi artefici di questa metodologia, il cui lavoro è stato poi continuato negli anni dalla federazione e dai singoli club, Anderlecht in testa. Bruyninckx ha portato avanti un progetto che l’ha reso famoso in tutta Europa, dal nome “CogiTraining”. Attraverso la collaborazione con l’università di Leuven, negli ultimi 15 anni Bruyninckx ha sperimentato i suoi metodi su un campione di 180 ragazzi (130 maschi e 50 femmine). 7 maschi e 7 femmine sono poi diventati grandi calciatori professionisti. Tra i sette maschi ci sono anche due nazionali belgi, come l’ex Porto Defour e indovinate un po’ l’altro chi è… proprio il vostro Dries Mertens!” 

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(Nel 2011, ai tempi dell’Utrecht, il folletto belga ringraziò il suo mentore in un’intervista alla BBC, dicendo “mi ha dato quel qualcosa in più sul piano mentale che fa la differenza“, Ndr)

E adesso che succede all’università di Leuven? Il progetto continua?
“In questo momento lì non stanno tanto a perseguire quella che è l’immediatezza e l’attualità del gioco del calcio, ma piuttosto, attraverso lo studio della cultura, l’istruzione, l’alimentazione e quello che sarà il modo di vivere del futuro, provano ad immaginare come verrà formato il calciatore del futuro.  Un calciatore 20-30 anni fa si formava in un certo modo, spesso proveniva dal mondo della strada, oggi in Europa si gioca sempre meno nelle strade e per sviluppare quelle stesse doti tecniche e di coordinazione si studia come riprodurre artificialmente un concetto di strada in allenamento e questo dettaglio è fondamentale per far si che non si perdano quelle qualità che permettono di esprimere in campo quel tipo di gesto tecnico che nel calcio fa la differenza. Questa metodologia non va applicata ovviamente a tutte le zone del mondo, non avrebbe senso portarla ad esempio in Sud America dove invece fortunatamente si gioca ancora tanto nelle strade e lavorare con questi metodi toglierebbe soltanto tempo ad altri tipi di lavoro che in quel contesto sarebbero più utili. In Europa però, in Italia come in Belgio, per strada si gioca pochissimo e questa cinetica della capacità coordinativa e del senso motorio percettivo, che un tempo si acquisiva automaticamente giocando in strada, deve essere oggi riprodotta per andare poi a creare i presupposti tecnici da cui nasce gente come Dries Mertens o come tutti gli altri grandi talenti del calcio belga che oggi fanno la differenza ad alti livelli”.

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Tu hai un contratto in scadenza… Perchè non provare a portare i metodi di lavoro dell’Anderlecht in un club italiano?
“L’opzione di continuare ancora con l’Anderlecht non è ancora del tutto tramontata. Chiaramente ci sono delle esigenze di tipo contrattuali e personali che in questo momento mi obbligano a guardarmi attorno. Ad oggi io ricopro ancora per l’Anderlecht il ruolo di coordinatore per il progetto in Italia ed anche quello di scout e metodologo e fino alla fine lo porterò avanti con il massimo della professionalità. Dopo 10 anni di lavoro all’estero fatti di studi, di sperimentazioni e anche di qualche piccola bella soddisfazione come la vittoria del Viareggio e la semifinale di Youth League quando ho lavorato per la formazione primavera, tornare in Italia e portare questi metodi, seppure in maniera ridotta e plasmata in base al contesto diverso, in un club che ha interesse ad investire per lo sviluppo dei giovani, sarebbe per me una gran bella sfida professionale e mi permetterebbe anche di stare un po’ più vicino alla mia famiglia”.

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E che tipo di contributo potrebbe dare in futuro Massimo Sarcì al vivaio di un club italiano?
“Il mio ruolo è quello di coordinatore tecnico e metodologo. Il contributo sarebbe rappresentato dal dare al club un taglio metodologico di tipo europeo, non perchè in Italia non si lavori già bene, ma perchè ho avuto testimonianza diretta attraverso la mia esperienza in Belgio che anche in un paese così piccolo con determinate metodologie si possono sfornare tantissimi campioni. Fermo restando che io sono anche un allenatore. Dalla mia ho la possibilità di mettere a disposizione una visione molto ampia in termini di settore giovanile. Grazie all’Anderlecht ho avuto la fortuna di girare il mondo e studiare diverse società e le relative metodologie di allenamento dei giovani: dal Barcellona, al Real Madrid, passando per lo Sparta Praga, il Lille fino ad estendere il mio studio a realtà diverse come gli Stati Uniti ed il Messico. L’italiano è storicamente autoctono e tende a respingere ciò che viene da fuori rimanendo fedele al proprio background, ma i metodi che hanno fatto grande il calcio belga hanno portato dei risultati che sono sotto gli occhi di tutti, costruendo una delle nazionali più forti al mondo in un paese da cui non veniva più fuori un buon giocatore da almeno 20 anni. Qualcosa dovrà significare…”

Non si può dire altrettanto bene del vivaio del Napoli…
“E’ un problema di tutto il sud-Italia, non solo del Napoli. Io sono di Palermo ed ho lavorato con tutto il mondo del calcio tranne che con il club della mia città. Non si capisce perchè ma si va sempre a cercare lo straniero, forse perchè ha più fascino. Se i Donnarumma, per intenderci, finiscono al nord, credo che le ragioni sostanzialmente siano due: la prima riguarda gli investimenti. Se ci sono club che investono 15 milioni nel vivaio come la Juvenntus, fino all’Atalanta che pur essendo un piccolo club ne investe 5-6 che sono tantissimi, è chiaro che le squadre dilettantistiche di provenienza di questi ragazzi scelgono di cederli al nord per avere maggiori ritorni economici che magari il Napoli di turno non potrebbe garantire. La seconda motivazione è di tipo ambientale: Napoli, così come Palermo, è una città particolare, dove talvolta la troppa vicinanza dell’ambiente circostante rischia di influenzare negativamente la crescita del calciatore che, scegliendo di andar via sin da giovanissimo, sa di avere maggior serenità e di conseguenza maggiori chance di fare poi carriera”.

Intervista a cura di Andrea Falco

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