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Storie di sport – Era più forte di Totò, oggi è un clochard: Antonio Maurizio Schillaci, ex stella del pallone in cerca di un’occasione

“A Licata, a volte, entravo in campo dopo aver fumato erba. All’epoca non era ancora doping, Non capivo quale fosse la curva e quale la tribuna. Poi però giocavo bene, mi chiamavano gazzella, fu il mio periodo migliore. Ero quello che Maradona era per Napoli. Avevo un tendine bucato, ma non solo quello, la droga ha fatto il resto. Eroina, la cosa peggiore. Il declino è stato velocissimo, in un attimo mi sono ritrovato per strada.” E dalla strada Maurizio non ci è uscito. Non ancora…

Storie di sport – Era più forte di Totò, oggi è un clochard: Antonio Maurizio Schillaci, ex stella del pallone in cerca di un’occasione

Nessuno può girare in questo periodo, una sola l’eccezione, i senzatetto di Palermo, che poi sono in tutta Italia, intrappolati nella città ferma, nei centri diurni chiusi per via del possibile contagio. Nessuno che fa l’elemosina perché nessuno può uscire di casa, e senza soldi non si può comprare niente. E dove, poi. I negozi sono chiusi, bisognerebbe spingersi verso i supermercati, ma chi ha la forza. E i soldi. Senza soldi non si cantano messe. Le mense dei poveri, chiuse, distribuiscono panini, roba fredda. È un pezzo della solitudine generale che vive il paese, ma a differenza di altri, questo pezzo è quasi completamente tagliato fuori dal racconto collettivo. Le organizzazioni, le associazioni, i volontari e gli operatori del terzo settore si stanno riorganizzando per evitare che molte persone come lui restino da sole, ma non è semplice. Ho saputo che quest’uomo è andato spesso nei centri d’accoglienza. Per dormire, mangiare e lavarsi, ma poi è sempre tornato a quell’incrocio con il suo cartello. Perché? È semplice: cerca un lavoro.

La figura di Antonio Maurizio Schillaci, cugino dell’eroe mundial Totò che dilapidò non solo i soldi, ma anche il suo talento, pure perché vittima degli infortuni, della droga e anche di se stesso… La sua storia non fa più notizia e dopo tanti anni in strada ha trovato il suo equilibrio con una sedia, un auto e un cane. Ha vissuto nei treni fermi, in appartamenti di fortuna. Maurizio oggi vive dentro una vecchia Panda col suo inseparabile Johnny, motivo per cui non può rivolgersi a dormitori pubblici che non accettano cani.
Vive di elemosina dietro il teatro Massimo di Palermo ed in molti non sanno quando danno qualche spicciolo che quest’uomo, che a febbraio ha compiuto 58 anni, è stato una grande promessa del calcio. La sua però, per sua stessa ammissione, è stata “una brutta storia”. Gli inizi di carriera al Palermo, poi Licata (sempre sotto lo sguardo attento ed entusiasta di un certo Zeman) e Messina e la grande occasione alla Lazio. Prima di terminare alla Juve Stabia. Attaccante esterno, rapidissimo, dicevano essere più forte del più famoso parente Totò. La sua vita è mestamente “finita in fuorigioco…”: senza casa e a camminare per il mercato della Vucciria per raggranellare qualcosa da mangiare. “Tutti dicevano che ero più forte di Totò. Può essere. Di sicuro io non ho avuto la sua fortuna”, ha ripetuto spesso a chi gli chiede un paragone con suo cugino, star delle notti magiche di Italia ‘90. Entrambi figli di pescatori, nati e cresciuti al “Capo”, giocano da ragazzini nel sagrato pietroso della “Madonna della Mercede”, a cui tutti gli abitanti del rione sono così devoti da chiamarla: “La Regina del Capo”.

Maurizio, occhi profondi e il viso segnato da droga e tristezze, ripercorre le tappe di vita e carriera: “Le mie stagioni migliori le ho vissute con Zeman. Segnavo gol a ripetizione. Poi è arrivata la Lazio. Era il mio periodo di grazia. Vivevo nel lusso, ho cambiato 38 auto, ho giocato nello stadio dei sogni, l’Olimpico. Contratto di 500 milioni per 4 anni. Poi qualcosa non va per il verso giusto. I primi infortuni, gli stop. Poi scopro perché. Vado in prestito a Messina, là trovo mio cugino Totò. Tutti i giornali parlavano di noi, io e lui facevamo a gara a chi segnava di più quando io ero al Licata e lui a Messina. Ma la mia carriera in realtà s’è spezzata a Roma. Un infortunio mai curato che mi impediva di esprimermi al meglio. Facevo poche partite e mi fermavo. Mi chiamavano il “malato immaginario” o il “calciatore misterioso”, perché ero sempre in infermeria. In realtà avevo un tendine bucato. A Messina si accorgono del problema, mi curano, ma la carriera era ormai volata via. Poi ho subito altre situazioni. Più brutte degli infortuni. Vado alla Juve Stabia, ormai ho 33 anni. E qui conosco la droga. La cocaina, poi l’eroina. Nel frattempo ho divorziato da mia moglie. Zeman? Ogni tanto lo incontro ancora. Lui impazziva per me. Un grande in campo e fuori per le sue battaglie. Un padre. Il doping? C’è stato sempre. A me consigliavano di prendere la creatina, mi sono fidato dei medici. Era proibita, ma l’ho saputo dopo. Soldi per aggiustare le partite? Solo una volta me li hanno proposti. Giocavo nel Licata, a Casarano, lo dissi subito a Zeman. Mi disse di rifiutare. Poi finì 0-0, prendemmo 8 pali… Ma a volte le partite si decidono in mezzo al campo, parlando… Il mio declino è stato velocissimo e ora mi ritrovo per strada. Non riesco a trovare lavoro. Sì, le ragioni io le conosco. La prima è che io, oltre al calcio, non sapevo fare nulla. La seconda che i soli amici che potrebbero aiutarmi non ci sono più: erano i miei compagni di sventura, quelli che si facevano come me. Ora non ci sono più… Gli altri? Gli altri mi danno una mano come possono, ma io passo sempre per quello che si faceva. Ci sono altre persone con me, siamo un gruppo di 20 persone. Con mio cugino Totò non ci sentiamo più. Ho lavorato nella sua scuola calcio per un periodo, ma per travagghiare là spendevo 300 mila lire e guadagnavo la stessa cifra. Ho deciso di mollare. Ed ero stanco delle chiacchiere della gente di quel guardarti storto di chi diceva: non porto mio figlio da chi si drogava. Ma l’eroina per me non esiste più. Ho toccato il fondo ma ora voglio risalire. Ogni tanto guardo i bambini giocare in mezzo alla strada. Li osservo e mi piacerebbe dare un calcio a quel pallone…” Oggi, lo si incrocia, di tanto in tanto, nella grande piazza del capoluogo siciliano. Chiede di giocare a calcio con i ragazzini o di pregare per lui. Ebbene, non vede le sue figlie da anni, vorrebbe un’occasione. Un riscatto personale. Un lavoro. Molti trovano il coraggio di ripresentarsi ai loro cari perché si sentono persone. Maurizio è (stato) un grande calciatore. Maurizio è una persona.

Andrea Fiorentino

 

“Ci sono storie che toccano il cuore. E che fanno male. Storie che portano inevitabilmente “tutti gli altri” a parlare, giudicare, commuoversi, partecipare. Quella di Maurizio Schillaci diventa notizia oggi nei passaggi più drammatici, che più fanno effetto, ma ha radici più lontane, passaggi più complessi. E io ho troppo rispetto per unirmi a un coro o per condividere ricordi e momenti vissuti con lui così personali. Perché Maurizio l’ho avuto negli Allievi, poi in Primavera, poi a Licata, Foggia (ma solo pochi giorni), Messina… L’ho visto crescere in quegli anni in cui il calcio, soprattutto al Sud, aveva ancora la poesia di campi arrangiati e di rapporti umani e Maurizio era idolo dei suoi tifosi e leader per i compagni. Così lascio per me l’uomo e vi racconto ‘solo’ il giocatore. Un grande talento. Tecnicamente un fenomeno. Per mezzi, colpi e intelligenza calcistica avrebbe potuto giocare in Serie A senza difficoltà e farlo a grandi livelli. Nel mio 4-3-3 giocava sulla fascia, e aveva tutto quel che serve per quel ruolo: corsa, progressione, tecnica, senso del gol, altruismo. Maurizio è sempre stato un generoso con tutti, per questo i compagni gli volevano bene. Lui aiutava tutti. E dispiace oggi saperlo solo. Se era più forte del più famoso cugino Totò? In passato l’ho detto, ma non c’è sempre bisogno di un paragone, di un più o un meno, di un titolo a effetto. Certe carriere non sempre ti regalano quanto avresti meritato. Vale anche per la vita, purtroppo. Che non inizia e finisce solo in un campo di calcio. Lì Maurizio la sua partita la giocava veloce e leggera, con fantasia e colpi di genio, col cuore e con la testa. E non finiva mai in fuorigioco. Così mentre me lo rivedo su quella fascia, quello che gli auguro oggi è di riuscire in un’altra ripartenza, una di quelle in cui era bravissimo e nessuno riusciva a stargli dietro. Non è mai troppo tardi”. 

Firmato Zdenek Zeman, nel 2013, per la Gazzetta dello Sport

Foto in copertina tratta dal docu-film “Fuorigioco” di Davide Vigore e Domenico Rizzo.

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