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Storie di sport – Talento, umanità e incostanza, Gesù e Che Guevara: pillole di Zigo-gol

Calcio: donne, ricchezze, bella vita, lustrini e paillettes. Tutto molto bello. O quasi. In un’azienda abituata a questo tipo di mentalità, ci dimentichiamo di riflettere sul perché non contempliamo la tristezza quando pensiamo a persone di successo, in questo caso a calciatori. Soprattutto quelli del passato. Oggi più di allora, a causa dei social network, siamo spinti a credere che gli atleti celebri non possano avere momenti di tristezza o addirittura cadere in depressione.

Storie di sport – Talento, umanità e incostanza, Gesù e Che Guevara: pillole di Zigo-gol

La depressione è un problema reale, inutile girarci intorno. E sottovalutarne la portata non è certo una buona idea. È un buco nero che ti risucchia, togliendoti ogni forza per reagire. Nonostante i segnali incoraggianti, è ancora presto per dire che oggi gli atleti possano sentirsi liberi di confessare le proprie debolezze. Abituati alla gloria, alle urla esultanti di tifosi e colleghi, alla competizione, affrontare l’improvvisa mancanza di adrenalina non è per niente facile. Soprattutto in quelli che sono gli atleti divenuti celebri quando lo sport era una vera e propria passione. Una missione. Lo dimostra la vita, il romanzo di Zigo-gol (come lo chiamavano i tifosi scaligeri, sponda Hellas), che può contare su pagine di pura ribellione. Sigarette, pistole, donne, whisky, ore piccole e auto veloci. Un giocatore anticonformista dai capelli lunghi, che giocava una partita nella partita, ispirato dall’estro che bacia solo i grandi. E consapevole che la sua vita di calciatore è stata spesso stritolata dentro la gabbia del pregiudizio. Controcorrente, ribelle e ricordato come uno dei simboli del calcio degli anni Settanta, Gianfranco Zigoni è stato un attaccante di talento, un dissacratore del sistema calcio pur facendone parte e vivendolo appieno.

Gianfranco Cesare Battista Zigoni, nato a Oderzo, nel trevigiano, il 25 novembre 1944, sa fin da ragazzo di avere un talento particolare nel giocare a pallone, ma capisce immediatamente che in quel mondo nel quale vuole entrare, perché lui ha tutte le capacità per starci ad alti livelli, non gli somiglia affatto. “Non l’ho mai amato il pallone. Mi sono ritrovato a giocarlo. Era destino. Non è che mi piacesse. A tredici anni ho fatto un provino per il Pordenone che era un vivaio della Juventus e dopo venti minuti mi hanno preso”. Questa la cifra caratteriale di un uomo mai banale. “Da bambino giravo armato di fionda, più cresciuto tenevo sotto controllo il territorio con la carabina. Finché un giorno – ha spesso raccontato Zigoni – a caccia, colpii un merlo, che cadde vicino a un laghetto. Mi avvicinai per raccoglierlo e incrociai il suo sguardo. Lui era ferito, ma vivo, e i suoi occhi mi dicevano: brutto bastardo che non sei altro. Mi sentii un mostro. Lo strozzai per non farlo soffrire ancora, gettai la carabina e mi ferii volontariamente alla fronte con il filo di ferro di un vitigno. Sanguinavo. Il giorno successivo vendetti i fucili”. Turbolenza e sensibilità. Soprattutto onestà intellettuale, palesata sinceramente anche nel calcio: “A me ribolle il sangue quando sento i calciatori lamentarsi. Mio padre si è rovinato i polmoni a furia di lavorare nella fabbrica delle schifezze, uno stabilimento che ha ammazzato tanta gente di questo posto. Mio padre è morto e lui, il padrone, vive in un castello con parco annesso. Queste sono le ingiustizie. Se fosse vivo il Comandante… Io da giovane volevo fare la rivoluzione. Non ho mai frequentato il gregge”.

“Ho accumulato più giorni di squalifica che gol perché non sottostavo ai soprusi degli arbitri. Dicono: bisogna credere alla buona fede di quei signori. Ma per favore, ho visto furti inimmaginabili e ho pagato conti salatissimi. Una volta mi diedero sei giornate di squalifica e trenta milioni di multa perché dissi a un guardalinee di infilarsi la bandierina proprio là. Trenta milioni degli anni Settanta: all’epoca con quei soldi compravi due appartamenti. Il prezzo della mia libertà di opinione”. Talentuoso e indisciplinato, un ossimoro insomma: specie per una squadra di soldatini diligenti come la Juventus. “Ho un unico rimpianto, essermi tagliato i capelli alla Juve: ma ero troppo giovane, non avevo la forza di ribellarmi agli Agnelli. Là mi sentivo un numero.”

Le parentesi al Genoa e alla Roma, piazze calde che consentono a Zigoni di entrare in empatia coi tifosi, poi la storia d’amore con l’Hellas di Valcareggi, durata sei stagioni: “Quella era una squadra fatta su misura per me. Io ero un uomo libero e il Verona mi consentiva di esserlo. Sognavo di morire sul campo, con la maglia dell’Hellas addosso. Mi dispiace solo di non avergli dato tutto”. E un aneddoto divertente che lo stesso Zigoni racconta: “Un giorno Valcareggi mi dice che non mi avrebbe fatto giocare. E gli dico ridendo: Ma come, mister… Tiene fuori il più grande giocatore del mondo?. Comunico ai compagni che sarei andato in panchina con pelliccia e cappello da cowboy, in cinque scommettono che non l’avrei fatto. E invece presi posto sulla panchina del Verona conciato in quel modo”. 

“Gesù Cristo? Questo signore, duemila anni fa, è venuto sulla terra per dirci che gli uomini sono tutti uguali. E il Che cosa predicava? Che in ogni parte del mondo bisogna combattere l’ingiustizia. Che Guevara e Gesù sarebbero andati d’accordo. Io non posso dirmi tale perché a me i soldi non fanno schifo, nel senso che ne riconosco l’importanza. Senza denaro non si può vivere. Ho quattro figli (tra cui Gianmarco, attaccante del Venezia ndr) del resto. Cristo e il Che sono gli unici immortali transitati sulla terra. Loro vivono, noi siamo morti”.

Infine, un quadro dello scenario attuale: il calcio, la pandemia, le impressioni su quello che è il mondo del pallone oggi (e non solo). Ma soprattutto uno status depressivo, figlio di una forte sensibilità e di grande intelligenza emotiva: “L’uomo non è venuto al mondo per giocare al calcio, se ne può anche fare a meno per un lungo periodo. Il denaro vince sempre, sugli uomini. Che vergogna. Hanno deriso la federazione belga e olandese perché hanno chiuso il campionato anticipatamente, hanno messo alla gogna mediatica il presidente del Brescia Massimo Cellino perché si rifiuta di scendere in campo. Ma come si può ancora parlare di calcio con centinaia di morti in corsia? Corpi bruciati senza alcun ultimo saluto, la gente continua a contagiarsi ogni giorno… Ripeto, il denaro è la rovina del mondo. Se Lotito ci tiene tanto a questo scudetto, che glielo dessero. Anzi, avrei una proposta: perché non giocano i presidenti? Che facciano gli uomini. Non hanno rispetto né per i morti né per quelli che combattono in corsia per salvare vite. Se tutto va bene, si deve riprendere a settembre o ad ottobre. Con il pubblico. Da gennaio magari si fa il campionato, con gli stadi pieni, perché il calcio senza tifosi non ha alcun senso. Sono a letto che non mi muovo da un mese e mezzo. La verità è che sono demoralizzato. Questa cosa andrà alle lunghe, non finirà più. Il calcio di oggi? È tutto un cinema”.

Andrea Fiorentino

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