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Inter, Mourinho: “Tutti i segreti del mio Triplete. Non capisco perché Materazzi non lavori per l’Inter”

Josè Mourinho

Dieci anni dopo il trionfo di Madrid, il tecnico portoghese rivive la magica stagione 2009-10. “Che sfuriata a Kiev, che tensione a Siena. Perché uno come Materazzi non lavora per l’Inter?”. L’intervista esclusiva alla Gazzetta dello sport del venerdì.

Inter, Mourinho: “Tutti i segreti del mio Triplete. Non capisco perché Materazzi non lavori per l’Inter”

“Il meglio in carriera l’ho dato dove ero a casa, dove sentivo le emozioni del mio gruppo, dove sono stato al duecento per cento con il mio cuore: più una persona che un allenatore. Per questo a Milano ero più felice di vivere la felicità degli altri – da Moratti all’ultimo dei magazzinieri – della mia stessa felicità: io una Champions l’avevo già vinta. Mi è capitato di pensare prima a me che agli altri: all’Inter, mai. Questo succede in una famiglia: quando diventi padre, capisci che c’è qualcuno più importate di te, e passi al secondo posto. Finali? Quella di Coppa Italia non la volevo giocare: l’inno della Roma prima della partita, arrivai a provocare “Fermate la musica o ce ne andiamo”. A Siena avevo paura: sei giorni dopo c’era la grande finale, temevo non giocassero quella partita come una finale. Zero a zero al 45°, la Roma vinceva 2-0, nello spogliatoio un caldo tremendo, non capivo come aiutare la squadra a svoltare tatticamente. Fu molto dura, e non finiva più. Avevo detto: Un giorno mi piacerebbe vincere un campionato all’ultima. Quel giorno mi dissi: Mai più”.

“L’addio di Ibrahimovic? Il casino successe prima, a Pasadena, il giorno dell’amichevole contro il Chelsea. Tormentone da giorni: “Ibra va al Barcellona, non va al Barcellona”, lui da super professionista quale è giocò 45 minuti, ma poi nello spogliatoio disse: “Vado, devo vincere la Champions”. I miei assistenti italiani erano morti – “Senza di lui sarà impossibile vincere” – i compagni non volevano perderlo. Ero preoccupato anche io, ma mi uscì così: “Magari tu vai e la vinciamo noi”. Ero stato un po’ pazzo, ma nello spogliatoio cambiò l’atmosfera. Poi dissi a Branca: “Se lui vuole andare a Barcellona, cerchiamo di prendere Eto’o”. Lui e Milito tatticamente potevano dare una diversità alla squadra. Cosa portò Sneijder? Diversità tattica. Serviva qualcuno che legasse il centrocampo a due attaccanti dalla mobilità tremenda, lui era perfetto. A un certo punto non ci speravo più, ma la prima opzione era lui e Branca mi disse: “Non mollare, facciamo insieme pressione su Moratti”. Da quel giorno chiamai Moratti tutti i giorni: “Serve Wes, Wes, Wes”.

“Perché non tornai a Milano con la squadra? Perché se fossi tornato, con la squadra intorno e i tifosi che avrebbero cantato “José resta con noi”, forse non sarei più andato via. Io non avevo già firmato con il Real prima della finale: chi ha detto che qualcuno del Real venne nel nostro hotel prima della finale disse una cazzata. Prima della finale successe solo che scoprii lo scatolone con le maglie celebrative e scappai per non vederle. Io volevo andare al Real: mi voleva già l’anno prima, andai a casa di Moratti a dirglielo e lui mi fermò, “Non andare”. Al Real avevo già detto no quando ero al Chelsea, al Real non puoi dire no tre volte. Oggi forse potrei stare 4-5-6 anni nello stesso club, ma allora volevo essere il primo – e sono ancora l’unico, fra gli allenatori – ad aver vinto il titolo nazionale in Inghilterra, Italia e Spagna. Allora mi dissi: “Sto qui due giorni, firmo il contratto e vado a Milano quando non posso più tornare indietro”.

“Addio? Avevo deciso dopo la seconda semifinale con il Barcellona, perché sapevo che avrei vinto la Champions. Moratti l’avevo preparato: senza bisogno di parole, la temperatura del nostro abbraccio in campo gli fece capire cosa volevo. Mi disse: “Dopo questo, hai il diritto di andare”. Era il diritto di fare quello che volevo, non di essere felice: e infatti sono stato più felice a Milano che a Madrid. Materazzi? Marco era il simbolo della tristezza di tutti noi, e di quello che deve essere un giocatore di squadra. Quando la squadra aveva bisogno di lui – Chelsea, Roma, Siena – lui era lì. Io sono cattolico e credo a queste cose: forse è stato Dio a metterlo lì contro quel muro, come ultimo giocatore che ho visto: con lui, abbracciavo tutti i miei giocatori. E dico una cosa: mi fa molto strano che oggi uno come lui – da allenatore, direttore, magazziniere, autista, non so – non sia all’Inter”.

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