Profondo il titolo scelto dal Corriere dello Sport per ricordare, ancora una volta, il dio del calcio: “Maradona, il profumo del calcio in purezza”. Al di là della retorica, del folklore della terra partenopea, al di là del cordone invisibile che lega Napoli a Buenos Aires, il sud del mondo, c’è l’uomo nella sua immensa e dettagliata personalità. C’è l’uomo nel prisma di frammenti che contemplano le infinitesimali particelle dell’essere. Maradona è morto due volte, la prima, forse ha mostrato una devastante potenza, ancor di più della seconda.
Era il 25 giugno del 1994, dopo la gara Argentina-Nigeria, rimbalza la positività al test antidoping del campione. Quel risultato: “gli sfilò il pallone dai piedi, come nessun avversario avrebbe mai saputo fare”. Ancora lui, Diego Armando Maradona, la sua genialità in chiassoso contrasto con una mente tormentata, che lo ha condotto ad una scia di errori e ad una matassa difficile da sbrogliare. Maradona, come un burattinaio che ha perso il controllo dei fili, che fino a poco prima sorvegliava con diligente attenzione. Lui senza pallone, “un Van Gogh o un Caravaggio senza tavolozza”.
El Pibe de oro, quel ragazzino povero, proveniente dal sud del mondo, che la povertà l’aveva conosciuta ha permesso al popolo di Napoli il sogno, l’illusione. Ha mostrato la complessità dell’esistenza umana, il riscatto.
CdS – Purezza, genio, tormento: il calcio di Diego Armando Maradona
“Adesso la sagoma del Pibe si libra leggera per l’infinito universo virtuale di cui sono fatte le nostre vite, sopra le bandiere a lutto, le città trasformate in santuari, gli stadi e le piazze che si tingono del suo nome, le retoriche e le celebrazioni di quanti, tanti in verità, lo santificano, perdonandogli anche ciò che non ha commesso, non senza segnalare che, per un caso del destino, la loro avventura s’intrecciava con la sua. Se in vita il fondo della sua anima è stato il letto di un fiume su cui – come scrive Ruggero Cappuccio sul Mattino – ci arrivava di tutto, pietre, immondizia e diamanti, in morte è una pergamena autografata dal campione, su cui ciascuno vorrebbe scrivere a caratteri indelebili la memoria della propria vita”.
“Sfibrati ed esausti nel calvario di una pandemia che non passa, scopriamo nella seconda morte di Maradona un’occasione per riconciliarci con l’inessenziale di cui è fatta la nostra vita. Perché questo lui era, il calcio in purezza, e nient’altro. Passione che si divinizza o si demonizza, perché si fa fatica a spiegare come possa stordirci tanto, venendo da un pallone. La nostra finitezza ci pare sempre troppo piccola per contenerla tutta”.
Emiliana Gervetti
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