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L’ex Napoli Agostinelli: “Mio figlio è morto di cocaina, e non ho mai smesso di chiedermi perché”

Andrea Agostinelli, ex centrocampista della Lazio e allenatore (anche a Napoli) con una carriera vissuta tra Italia, Albania e persino Congo, si racconta in una lunga intervista al Corriere della Sera.

L’ex Napoli Agostinelli: “Mio figlio è morto di cocaina, e non ho mai smesso di chiedermi perché”

Tra ricordi di calcio e confessioni amare, emerge la tragedia che lo ha segnato per sempre: la morte del figlio Gianmarco, scomparso nel 2014 a soli 33 anni per overdose di cocaina.

Una carriera tra Italia ed esperienze estreme

Agostinelli ha appena concluso la sua esperienza al Flamurtari, in Albania. Ma nella sua vita professionale ha toccato realtà ben più lontane.

«Ero a Roma quando arrivò la proposta dal Congo» racconta. «Accettai senza pensarci troppo. Atterrato all’aeroporto, mi accolsero tre macchine blindate. Da lì quaranta minuti di viaggio fino alla città. Gli allenamenti si tenevano a 50 chilometri da Kinshasa, in mezzo alla savana. Alcuni giocatori si cambiavano direttamente in campo. Due li notai subito: uno oggi gioca in Nazionale, l’altro negli Emirati Arabi. Quel Paese ha un talento innato per il calcio».

Allenava nello stadio Tata Raphael, lo stesso che fece da cornice al leggendario “Rumble in the Jungle” tra Muhammad Ali e George Foreman. «Le trasferte erano incredibili: tre ore di volo per raggiungere villaggi dove la doccia consisteva in una mastella d’acqua riempita al fiume da una donna del posto. C’erano stregoni, crocifissi appesi alle porte dei campi. Io vivevo in una grande casa, con guardie del corpo e pasti in un ristorante portoghese. Una vita privilegiata, almeno fino a quando le elezioni cambiarono tutto e decisi di tornare in Italia».

La tragedia personale

Il 2014 segna la frattura più dolorosa della sua vita. Gianmarco, il figlio maggiore, muore a Montecatini.

«Quando vivi una tragedia simile, per metà muori anche tu» confessa Agostinelli. «È un dolore innaturale, che ti lacera per sempre. Non c’è giorno in cui non lo pensi. Il tempo non guarisce nulla, semmai ti obbliga a imparare a convivere con la ferita».

Il figlio aveva iniziato a usare cocaina nel 2003, proprio quando Agostinelli sedeva sulla panchina del Napoli. «In casa mia non era mai entrata neanche una sigaretta. Quando io e mia moglie lo scoprimmo, si giustificò dicendo: “Lo fanno tutti”. Lo mandammo in comunità, e grazie alle mie conoscenze riuscì persino a esordire in Serie C2. Ma la sua battaglia con la droga non finì mai davvero».

L’ex allenatore ammette di essersi colpevolizzato a lungo: «Mi sono chiesto mille volte: “E se quella notte non lo avessi lasciato solo?”. Il giorno dopo avrebbe dovuto visitare un’agenzia immobiliare a Pistoia, dove volevamo tornare a vivere. Non ha capito il valore della vita».

Il confronto con l’educazione di ieri e di oggi

Agostinelli riflette anche sul ruolo dei genitori: «Invidio chi riesce ancora a trasmettere regole solide ai figli. I ragazzi oggi hanno troppo e controllare tutto diventa impossibile. Io ricordo mio padre Attilio: mi portava al campo, e per essere felici ci bastava una passeggiata alla fontanella vicino casa, con una fetta d’anguria in mano. Era un’educazione vecchio stampo, semplice ma piena di sostanza».

Una Lazio “senza regole”

Infine, un capitolo di ricordi calcistici. La Lazio degli anni Settanta, di cui Agostinelli faceva parte, era celebre per il talento e per la sua atmosfera spesso caotica.

«Non c’era un giorno tranquillo» ricorda. «Durante le partitelle le risse erano frequenti: ho visto persino allenatore e magazziniere venire alle mani. Eppure la domenica eravamo uniti. Una volta, in pullman per una trasferta, vidi tre compagni in fondo al bus caricare delle armi. Pensai: “Ma dove andiamo, in guerra?”. Cominciarono a sparare in aria. Poi alzai lo sguardo e notai un aereo che ci sorvolava. Era Gigi Martini, che oltre a essere calciatore era anche pilota».